Una riflessione dovuta, dopo avere letto lo scritto di Michela Curcio.
Coming out/Uscire allo scoperto, fare i conti con noi stessi, affrontare i dati di realtà, dichiararci a noi stessi, dialogare, confrontarci.
Con l’emergenza tutto cambia e matura. Toccando quotidianamente la morte, come sta succedendo, e non è necessario essere un sanitario come la sottoscritta per averne esperienza, i parametri mutano, la visione anche e, quindi, le priorità vitali.
E arriva il momento in cui, sia fisiologicamente, che psicologicamente e mentalmente, non possiamo più tollerare oltre, anche da noi stessi. E comincia la risalita.
«Quando l’epidemia finirà, non è da escludere che ci sarà chi non vorrà tornare alla sua vita precedente. Chi, potendo, lascerà un posto di lavoro che per anni lo ha soffocato e oppresso. Chi deciderà di abbandonare la famiglia, di dire addio al coniuge o al partner. Di mettere al mondo un figlio o di non volere figli. Di fare coming out. Ci sarà chi comincerà a credere in Dio e chi smetterà di credere in lui».
Per David Grossman, non è detto che l’emergenza coronavirus non possa insegnarci a essere più umani. Il celebre scrittore israeliano ha affidato la sua riflessione a una lettera tradotta da Alessandra Shomroni e pubblicata sul La Repubblica.
Pur non minimizzando la situazione e definendo l’epidemia da Covid-19 «più forte di qualsiasi nemico in carne e ossa che abbiamo affrontato o di qualsiasi supereroe che abbiamo mai immaginato o visto nei film», Grossman non crede che il mondo uscirà sconfitto da questa pandemia.
«Siamo – scrive l’autore di Che tu sia per me il coltello – sofisticati, computerizzati, equipaggiati con uno stuolo di armi…».
Che il coronavirus sia stato sottovalutato, però, è innegabile. Prosegue Grossman: «Di brutto sogno in brutto sogno sono gli uomini a passare… pensavano che tutto per loro fosse ancora possibile, il che presumeva che i flagelli fossero impossibili. Continuavano a fare affari, programmavano viaggi e avevano opinioni. Come avrebbero potuto pensare alla peste che sopprime il futuro?»
Tra dati e paura di non sopravvivere alla pandemia, nelle nostre vite oggi va in scena un dramma che Grossman definisce quasi biblico. «Una certa percentuale della popolazione – dice lo scrittore – morirà. Negli Stati Uniti si parla di un milione di probabili decessi. La morte è tangibile».
E ancora: «Sulle prime hanno proclamato “cancelliamo i voli”. Poi hanno chiuso i bar, i teatri, gli asili, le scuole, le università. L’umanità spegne i suoi lampioni l’uno dopo l’altro».
Secondo Grossman, però, quando l’emergenza sarà finita, l’umanità ne uscirà migliore perché consapevole della sua fragilità e della caducità della vita. Uomini e donne fisseranno nuove priorità e impareranno a distinguere meglio tra ciò che è importante e ciò che è futile.
«Ci sarà – spiega – chi, per la prima volta si interrogherà sulle scelte fatte, sulle rinunce, sui compromessi. Sugli amori che non ha osato amare. Sulla vita che non ha osato vivere. Uomini e donne si chiederanno perché sprecano l’esistenza in relazioni che provocano loro amarezza. Ci sarà forse chi si domanderà perché israeliani e palestinesi continuino a lottare a distruggersi la vita a vicenda da oltre un secolo, in una guerra che avrebbe potuto essere risolta da tempo».
E conclude: «Ci sarà forse chi, osservando gli effetti distorti della società del benessere, si sentirà nauseato e fulminato dalla banale, ingenua consapevolezza che è terribile che ci sia gente molto ricca e tanta altra molto povera. Che è terribile che in un mondo opulento e sazio non tutti i neonati abbiano le stesse opportunità. E forse anche i mass media, presenti in modo quasi totale nelle nostre vite e nella nostra epoca, si chiederanno con onestà quale ruolo abbiano giocato nel suscitare il generale senso di disgusto che provavamo prima dell’epidemia».